Francesco? Esempio anche per noi sportivi
A colloquio con Simone Giannelli
di Andrea CovaA poche ore dalla vittoria della nazionale italiana del mondiale maschile di volley, riproponiamo qui l'intervista che il capitano Simone Giannelli ha rilasciato per la rivista San Francesco patrono d'Italia dello scorso giugno.
«Le difficoltà? Le ho sempre vissute come strumenti per crescere, per diventare una persona migliore». In queste parole c’è molto di Simone Giannelli, classe 1996, palleggiatore della Nazionale italiana di pallavolo e uno degli sportivi più rappresentativi di oggi. Originario di Bolzano, con un passato da sciatore e tennista, ha trovato nella pallavolo non solo la sua strada, ma anche una dimensione di squadra, condivisione, appartenenza: «Mi piaceva l’idea dello sport di gruppo. Lo sport è fatica fisica, certo, ma anche valori positivi: l’aggregazione, il senso di appartenenza».
Oggi è considerato un simbolo del volley italiano, un riconoscimento che vive con gratitudine ma anche con consapevolezza: «È bello, perché significa che hai fatto qualcosa di buono. Ma è anche una responsabilità: la gente si aspetta tanto da te. A me, però, questo motiva ancora di più». In questa intervista a cuore aperto, Simone non parla solo di vittorie e palazzetti gremiti, ma racconta anche i momenti difficili, quelli che si attraversano in silenzio e che spesso formano più dei trofei.
Dopo essersi trasferito a Perugia, Simone ha conosciuto Assisi e scoperto la figura di san Francesco, rimanendone profondamente colpito: «È un santo che mi piace. La sua storia è forte, può essere un insegnamento per tutti. È un esempio di coerenza e passione, come quando insegui un sogno e non molli mai». E se potesse portare qualcosa dello spirito francescano nello spogliatoio della Nazionale? La risposta è netta: «L’umiltà. A certi livelli è fondamentale. Non bisogna mai dimenticare da dove si arriva. Restare umili è un valore centrale, nello sport e nella vita».
Simone, cosa significa per te essere considerato un simbolo del volley italiano?
È sicuramente bello. Essere considerato un simbolo significa che, in tutti questi anni, sei riuscito a fare qualcosa di buono. E questo mi piace, mi dà soddisfazione. Allo stesso tempo, è anche una responsabilità, perché c’è una certa pressione: le persone si aspettano tanto da te. Però questa responsabilità la vivo in maniera positiva, perché mi fa capire che quello che sto facendo lo sto facendo bene. Mi motiva ancora di più. Quindi, per me, è un onore e provo gratitudine per poter fare il mio lavoro e per tutto quello che sto vivendo.
Com’è nata la tua passione per la pallavolo?
Vengo da Bolzano e da bambino praticavo tanti altri sport. Sciavo, facevo atletica, tennis, ho giocato anche a calcio per un periodo. Poi mia sorella ha cominciato la pallavolo, e ogni tanto il sabato andavo a vedere le sue partite. Piano piano mi sono appassionato e ho deciso di provare anch’io. Ero già abbastanza alto per la mia età, e ho iniziato. Mi è piaciuto da subito. Con il tempo ho lasciato gli altri sport e sono arrivato al momento in cui dovevo scegliere tra il tennis e la pallavolo. Ho scelto la pallavolo perché mi piaceva il fatto che fosse uno sport di squadra. Lo sport è fatto di fatica fisica, certo, ma anche di valori positivi: l’aggregazione, il senso di gruppo, l’appartenenza. E la pallavolo, in questo, mi dava molto di più.
Hai mai pensato di mollare tutto o di rallentare?
Mollare no, sinceramente no. Ci sono stati momenti difficili, di alti e bassi, com’è normale nella vita, e non solo per questioni legate allo sport. Ma ogni volta che ho vissuto una difficoltà, ho cercato di affrontarla come un’opportunità per crescere. In quei momenti, ho avuto voglia di trovare strumenti per migliorarmi, come persona e come uomo. Le difficoltà, per me, sono sempre state occasioni per mettermi in discussione e andare avanti.
Hai un modello sportivo o della società civile a cui ti ispiri?
Non ho mai avuto un vero e proprio modello a cui ispirarmi nei momenti difficili. Mi è sempre piaciuto, come sportivo, Roger Federer, soprattutto per il modo in cui si comportava in campo. Ma quando ho affrontato dei momenti duri, ho sempre cercato di fare riferimento a me stesso. Ovviamente, con l’aiuto delle persone che mi sono state vicine e che mi vogliono bene. Sono state fondamentali.
Qualche anno fa sei stato anche protagonista del fumetto Il mio manuale della pallavolo, edito da BeccoGiallo. Che esperienza è stata?
Bellissima. Non avrei mai pensato di diventare un fumetto! Ringrazio davvero BeccoGiallo per questa opportunità: sono stati incredibili. Abbiamo fatto anche una ristampa, perché la prima edizione è andata molto bene, c’erano tante richieste. Nella ristampa abbiamo anche inserito immagini della partita che abbiamo giocato a Perugia. Il fumetto è nato durante il periodo del Covid, quando i ragazzi non potevano giocare, per cercare di portare un po’ di pallavolo nelle loro case. È stata una bellissima iniziativa che abbiamo fatto insieme, cercando di trasmettere dei valori importanti: l’aggregazione, il gruppo, l’idea che non bisogna mai lasciare nessuno da solo, che bisogna fare del bene gli uni per gli altri. E ha avuto davvero effetto. Tanti giovani mi hanno scritto per dirmi che è piaciuto, che è servito, che i valori che ho cercato di trasmettere sono arrivati. Questo mi ha reso molto felice. Sono davvero contento di ciò che siamo riusciti a creare insieme a BeccoGiallo.
Spesso si dice che lo sport è anche “scuola di vita”. Cosa ti ha insegnato, in particolare, la sconfitta?
Dopo la finale di Champions League che abbiamo vinto, ho detto una cosa che penso da sempre: le sconfitte sono la base delle vittorie. Per vincere, bisogna passare anche attraverso momenti difficili, scomodi, che ti costringono a guardarti dentro. Sono quelli i momenti in cui capisci cosa devi migliorare, dove devi lavorare. Negli ultimi anni, anche sulle piattaforme social, si parla tantissimo di vittoria, c’è quasi un’ossessione. Vincere, vincere sempre, solo quello. Ma per me la cosa più importante è il percorso che ti porta a quella vittoria. Il percorso è fatto di mille elementi, di fatica, di ostacoli, di momenti duri. Purtroppo queste cose riesci a dirle con più forza solo quando vinci, perché allora le persone ti ascoltano. Se lo dici dopo una sconfitta, sembra quasi che ti stia giustificando. Ma va detto sempre: la cosa più importante non è la vittoria in sé, ma tutto quello che hai fatto per arrivarci. E ancora di più, tutto quello che hai fatto quando non ci sei riuscito. È lì che ti giochi tutto, è lì che cresci davvero.
Cosa diresti a un giovane che vive la sconfitta come un fallimento insormontabile?
Direi che nello sport, come nella vita, non si vince sempre. La sconfitta è parte del gioco. Ma è sempre importante fare squadra: un percorso insieme. Ma per farlo bene serve anche la consapevolezza individuale: uno più uno più uno fa la squadra, e ognuno deve essere bravo a fare la sua parte. La collaborazione, la condivisione, il lavoro comune sono fondamentali. Ed è proprio stando insieme, aiutandosi l’un l’altro, che si superano le sconfitte. Non da soli. E questo è un insegnamento che vale anche fuori dal campo.
Che rapporto hai con san Francesco e con Assisi?
Sono sincero: non avevo un legame particolare con san Francesco. Ma quando sono arrivato a Perugia e poi a vivere a Santa Maria degli Angeli, ho cominciato a visitare Assisi, a documentarmi, a guardarmi intorno. Devo dire che san Francesco mi ha colpito molto. È un santo che mi piace. La sua storia è forte, è bella, può essere d’insegnamento per tutti. È un esempio per chi ha una passione, per chi vuole fare qualcosa fino in fondo. È un esempio di coerenza, di dedizione. E penso che questo valga anche per noi sportivi.
Se potessi portare un messaggio francescano nello spogliatoio della Nazionale, quale sarebbe?
Porterei sicuramente l’umiltà. Quella che lui ha vissuto fino in fondo. L’umiltà, per me, è fondamentale. Quando si gioca ad alti livelli, è importante non dimenticare mai da dove si arriva, le proprie origini. Bisogna restare con i piedi per terra, aiutare il proprio compagno di squadra, chi ha bisogno. Non montarsi la testa. Restare umili è un valore fondamentale, sempre. Nello sport, nei rapporti umani, nella vita di tutti i giorni. San Francesco ci ha mostrato che si può rinunciare a tanto per vivere meglio. E anche nello sport questo ha un senso: non serve apparire, serve essere. Serve metterci il cuore, lavorare con dedizione. La semplicità ti fa vedere cosa conta davvero.
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Andrea Cova
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