I vecchi e i giovani: impegno condiviso per 'donarsi' dopo la pandemia
Il dono è come tornato all’origine, al cuore della dinamica che apre vita, come vita comune, e cammino possibile
di Corriere della Seradi IVO LIZZOLA*
Il tempo della pandemia ha, forse, avviato un’esperienza diversa del tempo. In tante storie di donne e uomini, e poi anche nelle comunità, nella convivenza, nei suoi funzionamenti e nelle sue rappresentazioni. Un tempo che faticosamente è stato da riconquistare come un cammino oltre: fuori dai miti, dalle funzionalità, dagli «equilibri» e dai rapporti di ieri. Che erano, peraltro, già svelati nella loro fragilità, nella loro pericolosità (per la sostenibilità e il futuro delle generazioni giovani e a venire), nella loro ingiustizia. Nella disequità determinata nella distribuzione e nella accessibilità alle risorse, alle possibilità, alla cultura e alla salute.
Il dono - la sua pratica, la sua offerta e la sua attesa, la sua capacità di liberare e legare - ha attraversato nei giorni e nei mesi del 2020 le sofferenze, i corpi, le biografie. Le «piegature» di risorse e saperi, le forme del legame sociale, le attese verso la politica, verso l’economia, verso la scienza. Il dono è come tornato all’origine. Ed è tornato al cuore della dinamica che apre vita, come vita comune, e cammino possibile.
Questa è la trasformazione profonda: il legame essenziale tra dono e vulnerabilità, tra dono e cura, tra dono e offerta, e senso della vita. Come un nuovo apprendimento della condizione umana che si dà nel dono. Il dono è apparso, anzitutto, quello di una risposta alla domanda di affidamento, di possibilità di vivere nell’esposizione, da vulnerabili e fragili. Si sono vissuti il lavoro, gli esercizi di ruolo, le capacità e le prossimità nel segno essenziale dell’offerta, della coltivazione della vita, dell’azione che costruisce senso e buona relazione. Di donne e uomini non perfetti, non innocenti, ma nella possibilità d’essere giusti.
Dono senza restituzione, almeno senza una restituzione diretta. Generativo piuttosto di una possibile diffusione d’attenzione: una «restituzione» molto più ampia e aperta, in una sorta di fraternità, di dono fraterno, tra sconosciuti. Ci si è offerti da accolti, da vulnerabili. Ci si può chiedere se sia una dimensione solo da «tempo d’emergenza». Certo, nell’emergenza è più evidente, chiamati come si è a un gioco in verità, che chiede una volta per sempre di togliere cosa portiamo in noi, il fondamento e il fondo nostro.
Non è scontato, il dono, neppure in emergenza: il gioco di verità fa emergere anche l’ombra, la paura può attivare anche distanza aggressiva. Ma il dono unisce: dagli anziani e dagli adulti può venire il dono dei sogni. Dai giovani soprattutto la capacità di immaginare, di profetare e di realizzare le immagini, di sognare ad occhi aperti, di ritessere il mondo, di dare inizio, di tornare a dare inizio. Assolvendo il loro compito generazionale che è quello di nascere, tornare a nascere e di fare rinascere.
Nei mesi a venire bisognerà proprio che gli adulti e gli anziani consegnino più che la loro presa e capacità di controllo del mondo, i loro sogni, i loro moventi profondi, quelli buoni, quelli giusti, quelli segnati dalla attesa di lasciare dei semi generativi nella vita. Questa è la sfida e credo che dai giovani possa venire il dono del futuro, dell’inizio, di un gioco di sé e della propria libertà.
*Università degli Studi di Bergamo
Corriere della Sera
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