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Chi parla male pensa male

Il decadimento del linguaggio pubblico ridotto a slogan 

Contano i fatti, certo, ma anche le parole per descriverli. E le parole a volte diventano fatti, perché come diceva Nanni Moretti: «chi parla male pensa male». Ed è davvero un brutto pensiero quello che trasuda dalle parole di molti personaggi pubblici.

Siamo oltre la neolingua di orwelliana memoria, segnata da un lessico povero, da una sintassi elementare e pure traballante, fatta di slogan buoni per i talk show. L'uso di un linguaggio informale da bar degli amici, della semplificazione e della riduzione a slogan di questioni quanto mai complesse va in questa direzione: oltre a essere funzionale al linguaggio, al tempo e ai ritmi televisivi.

Molte di queste retoriche di carattere populista e/o sovranista, fondate essenzialmente sull'avversione per il diverso e su un linguaggio populista, sono finalizzate alla comunicazione più che alla politica e all'azione. Comunicazione urlata, diretta, semplificata all'osso perché anche questo fa parte dell'essere diversi da quelli prima. Infatti questi esponenti del «nuovo» riscuotono simpatie, perché usano un linguaggio terra-terra, simile a quello di chi li vota. In passato ci si attendeva che il politico fosse più capace del cittadino, oggi questo non vale più, conta essere nuovi e pertanto innocenti.

Questi nuovi politici piacciono, perché non sono conformi al linguaggio abituale degli esperti. La retorica dell'uno-vale-uno trasforma l'incompetenza del singolo in virtù del popolo, degna di per sé del comando, perché incontaminata dal sapere elitario. Trionfa la medietà, non ci si vergogna più della propria ignoranza.

Il comportamento, il linguaggio pesante ai limiti del volgare che vuole apparire ironico e scanzonato servono ai nuovi protagonisti della politica per apparire come gente del popolo, del tutto diversi da quelli del passato. Parlare in questo modo serve a fare apparire come più «naturali» quei politici che, liberati dagli obblighi della forma e dell'abilità retorica, considerate ormai indici di ipocrisia, possono lasciarsi andare a parlare senza peli sulla lingua, abdicando, in questo modo, a ogni principio di responsabilità nei confronti del ruolo ricoperto.

L'introduzione della battuta pesante, l'abolizione di ogni remora formale, il linguaggio greve, l'indifferenza se non addirittura il disprezzo quasi ostentati per la cultura diventano chiavi per la ricerca del consenso popolare più basso. La ferocia del linguaggio viene scambiata per autenticità, utile ai populisti per suscitare un senso di emulazione e di identificazione. Vogliono che l'elettore si immedesimi in loro, perché loro parlano e si esprimono come lui.

Un altro punto caratterizza il pensiero e il linguaggio populista e lo rende pericoloso.

L'assenza di mediazione nel comunicare, l'assoluta franchezza anche scorretta non sono solo un segno di imbarbarimento linguistico, ma un modo di interpretare i rapporti sociali come basati sull'essenza biologica e originaria degli individui, cioè tribale.

Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Il male si annida nella normalità del quotidiano e nella metamorfosi delle parole, nel modo di parlare, di vestire, nei media che si usano. Una regressione, per certi versi, perché, direbbe Albert Camus, «nominare male le cose è partecipare all'infelicità del mondo».

Il ruolo del politico non è più l'educazione della massa. I vecchi partiti di massa erano dei pedagoghi, che cercavano di educare politicamente anche i ceti sociali meno istruiti e lontani dalla politica. Il populismo porta alla gente solo poche idee, molto semplificate.

Il linguaggio e le scelte di una politica così urlata finiscono col creare un rapporto di causa ed effetto sulle azioni sconsiderate di alcuni, ma grazie a questo infischiandosene di qualunque logica, schernendo chi tenta di portare avanti un ragionamento coerente, gli attori di questa politica sostengono che essa è l'effetto e non la causa della violenza razzista e xenofoba.

La stessa tecnologia di comunicazione digitale favorisce una semplificazione sempre maggiore. Post e tweet non sono certo i veicoli più adatti per una riflessione complessa e, poiché il mezzo è il messaggio, ecco che ogni comunicazione è connessa e influenzata da un linguaggio riduttivo e scarno.

L'accelerazione prodotta dai nuovi media ha velocizzato anche la perdita di memoria collettiva, per cui si può dire oggi l'opposto di ciò che si è dichiarato una settimana prima, grazie anche a un giornalismo spesso succubo o ignavo. Questa memoria sempre più corta, condizionata dall'enorme flusso di informazioni che ci avvolge quotidianamente, che crea un presente permanente, sempre più ampio. Il voler vivere nel presente deriva da una crisi della nostra immaginazione, eppure il presente ha assunto la forma di una cupola che ci sovrasta, nella quale sembriamo investire la maggior parte delle nostre aspirazioni e delle nostre emozioni. Tutto avviene in fretta e si consuma, anche i legami appaiono spesso fragili e effimeri e ogni aggregazione tende a essere di breve respiro e senza prospettive. (La Stampa)



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